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Oh mio Dio!

Oh mio Dio, cosa ho fatto!” esclamai col volto pieno di lacrime.
Per inciso, mi stupii da sola: una pontAderese DOC un se lo sogna nemmeno di esprimersi così, tutt’al più sbotta in un “Io bonino, o che ho fatto!?”

1978: mio marito al volante della mia R6, io seduta dietro, stranamente, perché di solito guidavo io. Accanto a me, rilegata con perizia certosina, in formato A4, su carta ingiallita e copertina verde, la copia battuta a macchina del mio diario del Vietnam, i tre mesi passati in guerra “a mia insaputa” dieci anni prima, nel 1968. Era opera di mia madre, e l’aveva anche letto ai colleghi di ufficio, che “ci avevano riso tanto” mi aveva detto. E io mi ci ero tanto arrabbiata… pensare che è stato tutto merito suo, quello che è successo dopo!
L’originale era un blocchetto – oggi depositato all’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano – che quando lo vedevo… lo scansavo, quei tre mesi spaventosi li volevo dimenticare.
Era successo che nel ’67 mi vennero a cercare per suonare l’organo in un complesso (allora si chiamavano così) musicale femminile: stavo per dare l’esame di ottavo di pianoforte, per cui ero già pronta, ed ero agli antipodi di una figura di quel tipo, ma accettai; gli esami non li detti più, con grande disperazione della mia insegnante, ma oggi so che tutto partì da lì.
Eravamo insieme da un anno quando ci proposero un contratto molto vantaggioso per tre mesi in Estremo Oriente, con soli quattro giorni da passare in Vietnam. Del Sud. “Quattro giorni in Vietnam?????” Le famiglie non erano d’accordo, poi il nostro manager li convinse, e andò a Milano per firmare il contratto (aveva la delega).

Partimmo il 4 Novembre 1968 da Fiumicino; prima volta che prendevo un aereo, e non sapevo le prime volte che mi aspettavano… Sentii quindi il bisogno di scrivere, di confidare a un diario i miei pensieri, proprio lì, su quell’aereo, della SAS, ricordo ancora. A parte gli scali a Teheran, Karachi, Bangkok, arriviamo a Manila: qui viene “scoperta” la mia conoscenza della lingua inglese (scolastico, di allora, figuriamoci….) e per tre mesi divento l’unico inadatto contatto con l’altra lingua, che nessun altro mastica. Restiamo nella capitale filippina per 10 giorni, poi a Saigon. Dove – grazie a quell’inglese così maltrattato – scopro che il contratto parla di tre mesi sì, ma in Vietnam. Scritto in inglese, lingua sconosciuta anche al nostro manager.

Mi ci sono voluti quei dieci anni per cominciare a capire quanto mi abbia aiutato scrivere ciò che vivevo giorno per giorno, e di quanti anni sia cresciuta in tre mesi; allora mi sono messa in testa di far conoscere la storia: depositato il diario all’Archivio Diaristico, pubblicato col titolo di “Choi-oi!”, fino ad arrivare al docufilm di Wilma Labate “Arrivederci Saigon” e al Festival di Venezia nel 2018. Una vita, ma ce l’ho fatta.
Cosa significa “choi-oi”? Cosa è successo in quei tre mesi? E dopo? Se ve lo dico, addio sorpresa!
Il mio consiglio? Prima leggete il libro, poi guardate il film: solo così capirete che non è la solita storia.

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